Un protagonista della Romagna del dopoguerra
Sabato 15 dicembre, alle ore 17, inaugura, presso la Galleria FaroArte di Marina di Ravenna, la mostra Ettore Panighi – un protagonista della Romagna del dopoguerra, a cura di Claudio Spadoni. L’evento è organizzato da Capit Ravenna, in collaborazione con la Pro Loco di Marina di Ravenna, con i Patrocini di Comune di Ravenna e Regione Emilia-Romagna ed il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna.
Ettore Panighi
Si guardino certe sue ‘nature morte’ che sembrano tratte da un qualsiasi casolare o da una stanza di qualche pretesa d’una buona
casa di Romagna. Zuppiere, cesti, cocomeri, pesche, aringhe, cipolle:
quasi se ne sentono gli odori, anche forti, come del pesce, verissimo, magari appena pescato dal figlio più per la composizione pittorica che per la cena.
E non è difficile immaginarsi i profumi delle piante aromatiche immancabili in ogni cucina di campagna, mischiarsi con quello forte della carne che sfrigola sulla graticola […].Di un naturalismo volutamente popolaresco, paesano, si sarebbe tentati di dire, come ad accostare certa via nazionale del realismo impegnato esemplata da Guttuso, anche se non certo nei suoi marcati accenti siculiromani.
Ma sarebbe una lettura depistante in anni di polemiche non
ancora sedate contro gli astrattisti. Panighi, non se ne lascia coinvolgere, e alcuni temi di lavoratori trasposti soprattutto in tecniche incisorie, possono trovare riferimenti, più che al
nostro realismo, ancora a certa grafica della ‘Brücke’. E in alcune
sorprendenti Nature morte si respira invece un’inattesa aria secessionista, forse anche un’eco del ‘nabi’ Maurice Denis, m anche, più da presso, di certo Casorati […].
E ancora la natura morta, ma questa volta nella sua versione più
inquietante, crudamente espressionista. Teste di pecora, Carcasse di montoni, Mezzene di bue, sono i motivi di un ciclo pittorico che
rivela pienamente questa vena di Panighi, e ora con palesi riferimenti che attraversano secoli di storia della pittura, da Annibale Carracci – la Macelleria di Oxford – al Bue squartato di Rembrandt, fino a quello di Soutine. Da rievocare la vena naturalista ed espressionista di cui parlava Arcangeli per l’area bolognese ed emiliana, ed in particolare pensando, qui, a quel singolare pittore che fu Amico Aspertini. Ma ora, su un orizzonte internazionale la situazione era mutata radicalmente con la messa all’indice della pittura. Ciò che non poteva comunque turbare più di tanto Panighi che i suoi conti li faceva da tempo con la storia, nell’inossidabile
convinzione che la pittura potesse continuare ad essere uno strumento non obsoleto, e non surrogabile con altro, per raccontare anche il suon tempo da una propria, appartata prospettiva.Attraverso le sue nature morte, e le figure che volta a volta si prendono la scena. Lo straordinario Suonatore di chitarra dall’espressione grottesca, impegnato, come si può immaginare, in un’esibizione in qualche sagra paesana. Con i quasi coevi Convalescente, Vedova di guerra e Cardinale, apre una sequenza di figure che caratterizzeranno in modo sempre più personale il lavoro di Panighi. Non senza scandirne i diversi momenti con nuovi autoritratti, dal piglio sempre più marcato, autoironico, quasi
sprezzante. E insieme, la serie delle figure femminili talora ritratte, come la romagnola ‘arzdora’, intente ad ordinari lavori casalinghi […].Certo è che la serie dei ‘cardinali’, con Panighi stesso in porpora cardinalizia e un sorriso tirato fino al ghigno, evoca magari la memoria di Scipione, tuttavia sfrondata dall’atmosfera notturna di una Roma barocca, cattolica e peccatrice. Ma anche, e molto più da vicino, ‘Roma’ di Fellini, anch’egli, a modo suo romagnolo senza complessi, specie col suo ‘Amarcord’ che esemplifica al meglio
l’ammonimento di un grande russo, Tolstoji: “Se vuoi essere universale parla del tuo villaggio” […].
E davvero ancora una volta per scelta quasi estranei al contesto artistico ufficiale del tempo sono i dipinti di figure maschili, per lo più sedute, come Uomo sulla poltrona verde, Uomo con sciarpa, La solitudine, Uomo in salotto. Siamo in anni, dopo l’80, di alluvionale ritorno della pittura ormai archiviata la stagione dei rigori penitenziali del concettuale e delle pratiche poveriste, ambientali,
comportamentali che dir si voglia. Panighi resta volutamente incurante anche del principio di rimescolamento indiscriminato dei linguaggi e del citazionismo. Le sue immagini diventano ancor più crude, istantanee folgoranti con figure accompagnate dai consueti brani di natura morta, ma ormai solo bottiglie e bicchieri. Non
si saprebbe trovare un riferimento più adeguato, forse, della cruda visione della ‘nuova oggettività’ tedesca -Grosz, Dix, Beckmann, ma anche e forse soprattutto Christian Schad e Karl Mense – ma naturalmente senza il suo sottofondo ideologico e trasposta in una visione desolante del nostro tempo. E forse, restando sostanzialmente entro lo stesso arco cronologico, si potrebbero trovare non casuali consonanze con l’americano Grant Wood: si pensi alla coppia popolaresca ritratta nel suo notissimo Gotico americano del 1930. Ma anche col newyorkese Guy Pène du Bois, molto più che ai pittori italiani del pressoché coevo ‘realismo magico’. Magari restando in Italia, si potrebbe fare il nome di Dudreville. Un’area di riferimenti dilatata, dunque, e tuttavia di indubbia coerenza selettiva. E assieme a più pacate, ma non meno allarmanti immagini femminili riportate nel patetico della quotidianità, appaiono invece come uscite da ‘Psyko’ alcune Vecchie signore, sinistramente sedute con ventaglio in mano. Mani che direste riprese da Schiele, amato da Panighi, assieme ai citati tedeschi della prima e seconda ondata espressionista, e Lucien Freud. Per dire come questo appartato della ‘bassa’ abbia trovato e tradotto in una pittura di precisa identità, delle sintonie profonde con figure e fatti cruciali della modernità […].Tratto dal testo di Claudio Spadoni,
catalogo Ettore Panighi, gennaio
2018, Manfredi Edizioni